
Lele odiava la città. Non c’era bisogno di un grande intuito per capirlo, bastava guardare la sua faccia quando doveva prendere la metro a Milano o sentire come cambiava il suo tono di voce quando doveva scegliere cosa mangiare a New York. Eppure, in mezzo alle sue fotografie ho trovato tanti scatti che la riguardano. Sono scene di vita lenta, nella quale probabilmente ritrovava il suo modo di vivere la quotidianità ma in un ambiente così rumoroso, trafficato e lontano da lui. Credo fosse attratto e incuriosito da come le persone riuscissero a starsene in pace nonostante fossero circondate dalla confusione.
Se da giovane ha corso sul suo go-kart, attraversato il deserto del Sahara in moto e viaggiato in giro per il mondo in camper, il Lele che ho conosciuto io era una persona che amava la vita lenta, quella calma nel vivere la quotidianità che ti permette di apprezzare anche le cose più semplici, senza correre. E se da un lato ho ammirato la versione avventuriera di mio padre, dall’altro ho amato il suo godersi la tranquillità di casa.
Il passaggio a livello di Via Padusa era un posto magico dove il sabato Lele portava me e mia sorella a giocare, appena faceva caldo. Per me rappresentava il confine tra la realtà e la fantasia, dove la mia testa ambientava tutti i suoi racconti, il luogo che associavo alla libertà. Durante il mese di maggio, a partire dal mio compleanno, quella via si colora di rosso, perché tutti i papaveri che la circondano si danno appuntamento per sbocciare.
Quando mio padre se n’è andato, i papaveri di Via Padusa erano di un rosso meno intenso, le moto che passavano facevano un rumore completamente diverso e il sabato mattina sembrava un giorno qualsiasi. Se per tanto tempo non ho più riconosciuto e amato casa mia, oggi voglio sempre tornarci, in campagna. Allora salgo in macchina, scappo dalla città e, con gli occhi che brillano, attraverso quel passaggio a livello.







