Articolo di Raffaele Barbieri per Conselice Notizie del 23 luglio 1986
Per un appassionato di viaggi in moto, rimanere insensibile al fascino di una grande avventura come la Parigi-Dakar penso sia impossibile. Il desiderio di viverla in prima persona, mi si è accentuato dopo il viaggio che io ed il mio amico Paolo abbiamo effettuato nel deserto Algerino nell’estate del 1984. Gli articoli giornalistici e le immagini televisive non mi bastavano più perché, avendo percorso quelle durissime piste africane, non riuscivo ad immaginarvi una gara per auto, moto e camion. E così, la mattina del 28 dicembre, dopo oltre due mesi di preparativi io ed il mio Morini Camel partivamo per l’Africa. Una emozione forse ancor più intensa la stavano vivendo Alberto con la sua Renault 4 e Mauro con una moto simile alla mia che per la prima volta affrontavano una simile esperienza. Marco, un architetto di Vicenza, si era già avvicinato al deserto. Ci siamo conosciuti in Tunisia nel 1984 durante il mio precedente viaggio in compagnia di Paolo che, questa volta, ci avrebbe raggiunto dopo qualche giorno a Tunisi. A Genova per l’imbarco sul traghetto Habib qualche difficoltà: Alberto ha scordato la carta verde e tutte le compagnie assicuratrici di Genova il sabato sono chiuse. Ci imbarcammo lo stesso nonostante siamo sconsigliati dall’ufficio di polizia: non lo sanno neppure loro ma la carta verde è possibile farla anche a Tunisi.
Il traghetto è (come al solito) molto sporco e stracolmo di Tunisini che tornano nel loro paese. Facciamo conoscenza con diversi ragazzi che, come noi, hanno deciso di seguire la Parigi-Dakar. La sera seguente siamo regolarmente a Tunisi dove rimaniamo due giorni in attesa di Paolo che arriverà regolarmente in aereo il primo gennaio.
La partenza verso l’Algeria è terribile: freddo, pioggia, temperatura polare. Precorriamo in direzione di Gafsa 300 chilometri poi, dopo il guado di un fiume straripato affrontato a velocità eccessiva, da cui usciamo completamente lavati (e sarà l’ultimo bagno per molti giorni) decidiamo di fermarci per la notte in una baracca in costruzione. La mattina seguente oltrepassiamo il confine con l’Algeria dopo una sosta in dogana di oltre sei ore per le formalità di Polizia.
La sera siamo a Touggurt. Di alberghi ne esiste solo uno ed è molto caro. Ci allontaniamo pertanto qualche chilometro dal paese e passiamo la notte in mezzo alle dune. La cena è a base di minestra liofilizzata, poco buona, ma che ha il vantaggio di pesare molto poco. Gardahia è la meta del giorno seguente, ma ad Ouargla mentre ci riforniamo di benzina siamo avvicinati da due persone che parlano Italiano. È incredibile: uno di essi risiede a Faenza, l’altro a Granarolo. Lavorano per l’impresa Bentini pure essa di Faenza e costruiscono in mezzo al deserto una antenna televisiva. Raggiungiamo il campo dove siamo loro ospiti a pranzo. A pochi chilometri dal loro campo parte una delle prime prove speciali di quell’incredibile ‘circo’ che è la Parigi-Dakar. Noi con le moto percorriamo la pista che collega Ourgla a El Golea mentre la Renault 4 percorre la Transahariana con la stessa meta. Ci ritroviamo la sera stessa ad El Golea da cui ripartiamo l’indomani per In Salah.
Abbiamo ormai lasciato l’ultima strada asfaltata e la pista che si percorre è posta su di un altopiano lungo 400 chilometri e largo 300. Il traffico a causa del passaggio del rally è più intenso del solito; veicoli di assistenza di giornalisti, di compagnie televisive o di semplici appassionati come noi hanno reso, col loro peso il fondo della pista particolarmente insidioso. Le ruote dei fuoristrada e dei camion scavano canali profondi anche 50 cm e bisogna procedere con prudenza. Mentre sto cercando Alberto rimasto attardato entro in uno di questi canali: a causa della bassa velocità la caduta è inevitabile e rompo la leva della frizione. L’auto con i ricambi è lontana e non mi resta che raggiungere la meta di tappa cambiando senza l’ausilio della frizione. Nel pomeriggio percorrendo piste diverse ci ritroviamo con le tre moto ad In Salah. Manca però la Renault con Alberto e Paolo. Quando giunge dopo due ore il nostro ottimismo finisce. In una serie di buche un ammortizzatore è scoppiato e la sospensione si è danneggiata. Non c’è tempo per effettuare la riparazione e decidiamo di lasciare l’auto nei pressi della pista di atterraggio e di proseguire con mezzi di fortuna.
Io, Marco e Paolo (che usa la moto di Mauro, molto provato) decidiamo di ripartire subito per Tamaranset. Sono 670 chilometri sulla carta ma diventeranno 750 a causa dell’interdizione a percorrere molte piste. Alla dogana ci avvisano che l’unico distributore del tragitto, situato nel villaggio di Arak è sprovvisto di carburante e non si sa quando ne sarà rifornito. La strada verso Tamanrasset è buona per soli 60 chilometri, dopodiché della transahariana, non ne rimane che lo scheletro pieno di buche. Queste saranno un calvario per le nostre moto cariche di ricambi e di circa 50 litri cadauna di carburante. I portapacchi cominciano a cedere e ben presto siamo costretti ad abbandonare molto materiale ed a fissarci addosso a mò di zaino le taniche con la benzina utilizzando del nastro adesivo. Ad Arak ci rendiamo conto che la benzina non ci basterà per raggiungere Tamanrassett anche perché la mia tanica si è staccata e cadendo ha perso tutta la benzina. Ma la fortuna ci è amica e dopo poco ci raggiunge un fuoristrada con due Spagnoli a bordo che hanno benzina in eccedenza. Ci riforniamo da loro e, dopo aver mangiato un piatto di sgradevole cous cous in una bettola locale ripartiamo da Arak. Dopo pochi chilometri, in un tratto di sabbia molto molle, Marco incappa in un solco profondo 80/90 centimetri: la conseguente caduta seppure avvenuta a 80 chilometri orari non ha conseguenze gravi se non qualche ammaccatura e quella di averlo accartocciato – dice lui – di dieci centimetri per via del «tuffo» nella sabbia. Sistemiamo la Yamaha e ripartiamo. La pista diventa pietrosa e si arrampica in mezzo alle montagne. Questo tratto è tristemente noto a noi Italiani perché nel 1981 in queste gole persero la vita gli inviati di Autosprint alla Parigi-Dakar. Per immaginarle basti pensare al fondo sassoso dei nostri fiumi di montagna con la differenza che i sassi sono molto appuntiti: il tutto ambientato in saliscendi e tornanti che ricordano i passi Dolomitici. Finita questa tortura (soprattutto per i cerchi e le sospensioni delle moto) la pista diventa pianeggiante e davanti a noi si presenta un tratto di toule ondulé. In francese la parola significa lamiera ondulata ed è questa aspetto del fondo corroso dal vento e dalle piogge autunnali. Esistono due modi di affrontarla: a passo d’uomo, ma questo non fa per noi, o a forte velocità, «volando» su queste gobbe distanti mezzo metro l’una dall’altra. Bisogna arrivare a 100 chilometri orari per avvertire poco le buche. Ma le vibrazioni restano e ti svitano i bulloni, crepano i portapacchi.
La velocità elevata lascia poco tempo per vedere i bidoni che delimitano la pista o per scegliere i tratti migliori da percorrere. Ed è per una di queste decisioni presa troppo tardi da me che ad un certo punto esco di strada a forte velocità e mi ritrovo di fronte due «muri» di sabbia lasciati da chissà quale camion che si era piantato. Dopo l’urto col primo, «volo» sul secondo e mi ritrovo con le manu sul manubrio e le gambe in aria.
Riesco a non cadere ed a fermarmi, si ferma anche Paolo che mi seguiva da vicino e mi viene incontro facendo un segno con la mano che è riferito di solito a chi se l’è fatta sotto. Nel volo il portapacchi ha ceduto definitivamente e le marmitte sono a penzoloni: le ripariamo con degli elastici e ripartiamo.
Siamo molto stanchi e comincia a fare buio, per questo forse non ci accorgiamo di avere imboccato una pista vietata e dopo qualche chilometro siamo fermati da una pattuglia dell’esercito Algerino. Ci ritirano i passaporti minacciandoci di arresto poi credendo nella nostra buona fede assumono un tono più pacato e ci permettono di accompagnarci a qualche centinaia di metri dalle loro tende. Per cena non abbiamo che bottiglietta di grappa e qualche pastiglia di Enervit. I militari si accorgono di quanta fame abbiamo e ci offrono una razione del loro rancio. Forse oggi quella zuppa non la mangerei ma quella sera mi è sembrata buonissima.
Abbiamo tempo di scambiare qualche parola con i militari e di ammirare lo splendore delle stelle nel deserto: poi la stanchezza ha il sopravvento e Tamanrasset è ancora lontana. La notte, d’inverno fa freddo, e abbiamo la prova la mattina seguente trovando uno spesso strato di brina sulle selle delle moto. Ripartiamo dopo la colazione offerta dai militari e dopo aver percorso 350 chilometri attraverso gli abitati di Marabu ed Im Aguel giungiamo alle 13 a Tamanrasset.
Il tempo di piantare le tende e mangiare qualcosa ed assistiamo all’arrivo dei primi concorrenti: per i mezzi più lenti restano ancora molte ore gli ultimi arriveranno a tarda notte. Nel pomeriggio ritroviamo Mauro ed Alberto che avevamo lasciato ad In Salah il giorno precedente. Si sono arrangiati bene. Il primo ha trovato posto su di un camion dell’assistenza mentre il secondo ha approfittato nientemeno che dell’aereo personale di Thierry Sabine. Sprovvisti di viveri, rimasti ad In Salah, la sera ci aggreghiamo ai concorrenti del rally rifornendoci alle cucine dell’Africatour. Così anche la mattina seguente prima della partenza della terribile tappa dell’Assecrem. Qui cadono molti dei motociclisti favoriti tra cui il nostro Picco che rimane molto attardato. Precipita anche un elicottero, senza conseguenze per i piloti, ed è forse un monito a quanto di più tragico sarebbe accaduto.
La Parigi-Dakar è davvero terribile e così, la mattina seguente, quando la carovana prende la strada del Niger con temperatura sotto zero, molti concorrenti preferiscono tornarsene indietro.
Anche noi dopo averli accompagnati per un centinaio di chilometri verso il Niger preferiamo tornarcene indietro. Non potremmo d’altronde fare altro: è festa, l’ufficio polizia di Tamanrasset è chiuso e non abbiamo le necessarie autorizzazioni per avviarci verso il confine (necessario per eventuali ricerche in caso di smarrimento). Sistemiamo un po’ le motociclette presso un meccanico locale (sarebbe meglio chiamarlo fabbro) e prendiamo la via del ritorno con Marco sofferente per l’infezione ad una mano dovuta alla puntura di un ragno. Cerchiamo di evitare il più possibile piste percorse dalla Parigi-Dakar in quanto completamente distrutte dal passaggio di tanti mezzi. Incontriamo di tanto in tanto carcasse di auto partecipanti alla gara e qualcuna di esse è ancora «sorvegliata» dai loro piloti in attesa dell’arrivo dei ricambi per ripararla. Ad In Salah, dove siamo raggiunti da Alberto e Paolo che hanno trovato passaggio su alcuni mezzi di assistenza che hanno abbandonato la gara, ripariamo la Renault 4 e ricoveriamo Marco presso il locale ospedale per curarlo alla mano molto infiammata. Dopo due giorni, quando le sue condizioni sono migliorate ripartiamo verso casa. Siamo già a Nord quando apprendiamo la notizia dell’incidente all’elicottero di Sabine. La notizia ci rattrista molto: l’avevamo incontrato molte volte sempre impegnato a dirigere personalmente tutte le operazioni della «sua gara». Un personaggio pieno di fascino con un ascendente sulle persone veramente notevole. Forse però quest’anno, la gara, l’aveva fatta troppo impegnativa anche per sé stesso. La prossima Parigi-Dakar se si farà, non sarà certo così. Il 17 gennaio di pomeriggio ci imbarchiamo per Genova. Ci proponiamo di non tornare più su queste piste. Ma non ne siamo pienamente convinti. Mi è capitata la stessa sensazione in occasione del viaggio con Paolo. Poi dopo qualche mese mi è passato tutto. Chissà…