Per viaggiare quando non esistevano smartphone e navigatori potevi contare solamente su una bussola e su una cartina. Allora, perdersi non era un’opzione da evitare ma diventava quasi necessario per arrivare a destinazione. Perdersi faceva parte del viaggio.

Nel 2017 ho avuto la fortuna di fare un viaggio con Lele nel deserto. Il viaggio più bello della mia vita, e credo che resterà tale per sempre. Abbiamo attraversato il Marocco, da Marrakech fino a Merzouga, passando attraverso le cime dell’Atlas. È lungo quella strada che ho capito perché mio padre amasse tanto quel posto. Perché è silenzioso, come lui, come noi, ma ha comunque tante cose da mostrarti, da insegnarti, da raccontarti.

Una volta che ci sei stato, una volta che hai capito la sensazione che si prova, ti sembra di farne parte da sempre. Ed è proprio quella sensazione che ti fa venire voglia di tornarci, di perderti nuovamente in mezzo alle sue dune, tra le sue montagne, lungo le sue strade. Nel deserto ti ritrovi su un banco di sabbia dal colore prima giallo, poi rosso, in mezzo ad altre centinaia identiche. Non hai più niente intorno, ma nell’esatto momento in cui te ne rendi conto, ti accorgi che non ti interessa, perché è proprio del niente che hai bisogno.

Non è forse vero che è quando ci perdiamo, quando tocchiamo il fondo, che riusciamo a ritrovarci? Non è forse vero che è proprio quando perdiamo tutto che riconosciamo le cose superflue e quelle indispensabili? L’importante, ho capito, è avere sempre con sé la propria bussola, quel qualcosa o quel qualcuno che, in un modo o nell’altro, ti facciano ritrovare la strada di casa. Quando sentiamo parlare di deserto, la prima cosa che ci viene in mente è la desolazione. Ma anche nella desolazione c’è qualcosa per cui vale la pena lottare. Anche nel deserto si può essere tigre.

con il patrocinio di:
Comune di Conselice

con il contributo di:
CESAC Sca

a sostegno di:
Istituto Oncologico Romagnolo