
Lele era una persona silenziosa, di quelle che riescono a trasmetterti emozioni semplicemente guardandoti negli occhi. Amava, soffriva, ma lo faceva in silenzio. Forse è proprio questo che lo rendeva un uomo tutto d’un pezzo guardandolo.
Credo che amasse la fotografia proprio per questo motivo, perché riusciva ad esprimere quello che i suoi occhi osservavano e la sua testa elaborava, senza necessariamente dire qualcosa. In ogni sua fotografia c’è un pezzo di lui, un piccolo frammento di ogni suo pensiero non detto. Nessuna parola, nessuna frase, avrebbero raccontato meglio quello che voleva trasmettere, ed oggi sto cercando di dargli finalmente un significato, il mio significato.
Mi sono colpevolizzato tanto gli ultimi mesi, avrei voluto e vorrei ancora dire tante cose a mio padre, fargli delle domande. Ma con il passare del tempo mi sono reso conto che il silenzio era il nostro modo di comunicare, di dirci le cose. Perché quando hai tanto rumore dentro, forse le parole non sono poi così necessarie, e davvero non serve aggiungere altro. Avevamo tante cose da dirci, ma nessuna necessità di farlo. Il nostro silenzio era il modo di parlarci, nessuno l’ha mai capito. Forse nemmeno io, fino ad oggi.
Perché oggi ho capito quello che voleva dirmi, anzi, quello che non voleva dirmi. Non voleva dirmi che ora toccava a me, a sognare, ad amare, a dimostrare di essere una tigre. Ad imparare ad apprezzare le cose semplici, anche se ogni tanto è bello girare il mondo. A correre veloce, ma poi trovare anche il tempo di fermarmi a guardare il mare e i campi di grano. A girare a testa alta, osservando il cielo, sapendo che ho fatto tutto il possibile per essere una persona migliore. Non voleva dirmi tante cose, ma forse è meglio così. Le cose importanti, alla fine, escono dal cuore, non dalla bocca. Ovunque tu sia, papà, spero ti arrivi il mio silenzio.







