
Una delle passioni più grandi che avevo da bambino erano gli aerei. Ne avevo una collezione infinita, e con mio padre capitava spesso di andare ad esibizioni e raduni militari. Lo aveva sempre fatto, anche prima che nascessi. Era attratto dal cielo, da qualsiasi cosa potesse librarsi nell’aria, dai colori che ne scaturivano. Sarà per questo che tutte le estati regalava a me e mia sorella un aquilone diverso. C’è un senso di libertà nel cielo che non ha eguali, perché l’aria non è né come l’acqua dell’oceano né come la sabbia del deserto, non ha catene.
Lele ha trascorso i suoi ultimi giorni a Villa Agnesina, un hospice per cure palliative a Faenza. Era felice, perché fra tanti posti bui e tristi nei quali era stato, quello era bellissimo. Una grande casa in cima ad una collina che si affaccia su un parco alberato.
Di quei giorni ricordo soprattutto il cielo, perché sembrava fregarsene di tutto quello che succedeva sotto di lui. Nei giorni in cui andavo a trovare mio padre, mentre lui ricambiava il mio arrivo con un sorriso gigante, capitava che il cielo invece piangesse. Scrosci d’acqua rumorosi e interminabili. Ricordo poi tramonti bellissimi, un fuoco rosso acceso mentre a terra l’alluvione stava distruggendo Faenza. Nel momento più triste, quando Lele se n’è andato, io non avevo più terra sotto i piedi e aria nei polmoni, eppure, guardando fuori dalla finestra, la vita andava avanti come se niente fosse. Il sole era alto, il vento muoveva le chiome degli alberi e c’era un silenzio assordante. Il vuoto che mi ha lasciato mi ha fatto capire lo spazio che aveva, ed io avrei voluto urlarglielo in quel silenzio.
Mi irritava, ma mi sono reso conto che il cielo stava inesorabilmente scandendo il suo tempo mentre il nostro era sospeso, che stava semplicemente dando pace al mondo mentre noi a terra combattevamo una guerra. Ma d’altronde, «il cielo è bello perché, in fondo, fa da tetto ad un mondo pieno di paura e lacrime».







